• #1 (senza titolo)

amina narimi

~ ..con la fragilità che io immagino degli angeli quando spostano tra i fiori un buio d'aria

amina narimi

Archivi Mensili: luglio 2013

Nei movimenti delle rose ti cerco

31 mercoledì Lug 2013

Posted by Amina Narimi in Senza categoria

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Tag

amore, Duino, movimenti, Rainer, Rilke, rose, sentiero


Non ha posto il viso

Nè mai lo sguardo

Dalla parte della carne

Per qualcosa che non fosse

Quel che han visto gli occhi

Lì ha posato la gola. Denudato fiori

Sorella di un Verso di poesia

-dell’immenso impresso- l’Anima

Seduce la carne la parola

Dove giunge il tuo piede

-La fermezza  nella voce

Dei ciechi- Scuote il petto

Lo sa ogni buona madre

Lo sa il figlio

Che le piange in viso

Porto Rilke sotto il seno

La grazia del suo Rainer

Lo amo come fosse Vivo

Ma non è Lui che cerco

Sul sentiero di Duino

Quel che ha visto ..senza palpebre

fa cadere il tempo. Nelle rose

Lentamente

Più del pane sazia

Il bordo della coppa che fa tremare un uomo

Se chiudi la farina dentro il buio

Se con le dita avvolgi l’ombra

il sentiero di Rilke- Duino

 

È così che ti cerco Amato

Figlio mio. Senza contorni


Nei movimenti delle r
ose

 

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Ci tiene stupefatti

30 martedì Lug 2013

Posted by Amina Narimi in Poesia

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Tag

gola, occhi, ostia, scintilla, stupore


Un filo d’anima alla volta

viva.  e indispensabile scintilla

nascente da lontano

passaggio d’apertura

alla rivelazione

non posso toccare – Lo sguardo

colmo della vita-

mentre penetra come un fiato

sul mercato del sale

il tempo nella macine di sesamo

per tutto il giorno piano piano-

il nostro punto d’incontro-

Finchè  s’illumina con l’oscurità

sulle colonne di roccia degli oranti

come un imam sta davanti

la bomba inesplosa nel duomo

non puoi portarla via

È un’ostia nella gola

che ci tiene .stupefatti.

gli occhi chiari .

Hokusai-Red Fuji

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Lo sanno gli uomini d’aria..

28 domenica Lug 2013

Posted by Amina Narimi in Poesia

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Tag

aria, corteccia, dolore, impronta, nostalgia, parole, Respiro, tronco, uomini, verità


non so dire il rumore

che fa la corteccia

quando il vento la stacca

dal tronco

del pensiero/ è la sposa

dell’orecchio assoluto

lo sanno gli uomini d’Aria

mendicanti di verità

tra la virtù e la colpa

il premio della pietà:

non c’è impronta

senza respiro

se non nascere

a capo dell’albero

con tutto il dolore

sentire

in cima alle dita

staccarsi nelle parole

la nostalgia

fermarsi. per un momento

e condurre al contempo

 la vita

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Il mistero delle Egrette Sacre

26 venerdì Lug 2013

Posted by Amina Narimi in Poesia

≈ 1 Commento

Tag

egrette sacre, un altro giorno ancora


Un solo giorno ancora da colmare

sostiene l’Anno sull’orlo della vista

Più del Nome  chiama ciò che resta,

l’aprirsi senza fine- nascosto nella stanza

lucida di male e creme d’avene-

delle garze d’acqua

che ti porgevo sulle labbra

le hai scambiate  col bicchiere

aprendo le mani nude

le alzavi fino al viso

afferrando l’aria

come a portare un peso

dal deserto della gola

all’invisibile di luce

non so fin dove

   perché  avevi degli angeli   alle labbra

                               la grazia nel tenere niente

                                                il mistero delle egrette sacre

                                                                                      a bere Nulla

                                                                                                 riempio la sera, ancora,

come una pita

la ciotola di latte grigia

e suono intorno

un lamento bianco

circolare

nello sguardo ebbro

di sentire

quel vuoto lieve

tra le mani

che resta dell’assenza

come spazio

  del suo Essere sublime

egrettasacra

 

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A passi di preghiera

24 mercoledì Lug 2013

Posted by Amina Narimi in Poesia

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Tag

Attesa, bosco, canto, casa, pioggia, sole


lepistedelsogno

 

               A passi di preghiera

                  A prender l’acqua

                     dentro il bosco

              con un esile respiro

                          si lamenta

                   contro gli alberi

                           la schiena

in attesa della pioggia

spinge  alle labbra

un canto

per metà dolore

e chiaro agli occhi

 

Siamo inzuppati

Quasi felici d’improvviso

Fedeli

Altri passi  in silenzio

riconducono a casa

col sole

adagiato in quel luogo

remoto

 

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La parte della neve

23 martedì Lug 2013

Posted by Amina Narimi in Poesia

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Tag

dono, fratelli, madre, neve, riconoscimento, sangue


 

 

                                                                Vorrei cantarti della neve

                                  la parte della neve

pasta madre

della parte del sangue che non sai

                   del sangue che non sai

a togliersi  mai più dalle preghiere

-non toccare il nome nella voce

per marcare  la vita – e noi stessi-

e milioni di possibili modi

per tornarsene a casa

                                 tra il bianco la terra–

sai portare nel vento

un fuoco sottile        non è un cero spento

-che per l’altro non  soffia-

ma la più bella parte

la parte più bella di te: la forma di madre

– che avverto senz’occhi –

nel  grande  Rito  d’amare

                   quasi non fosse lontano la neve

un’eco fin giù. nel rosso del sangue

nel  raggiungersi  ciechi alla meta

                                  compiuta. come  fratelli

La parte della neve

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Il percorso dell’Eufrate

23 martedì Lug 2013

Posted by Amina Narimi in Poesia

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Tag

Eufrate, nome, occhi, percorso, preghiere, volto


Nella bottega col capo reclinato

siedo accanto alla forma che ti chiude

le mani intrecciate nel trasporto

del corpo inesplorato  Io Rivivo

la memoria gestuale -un luogo certo

Col rumore di un soffio da ogni lato

si apre il desiderio di un estuario

a cantare col cuore verso l’uomo

–Quali preghiere si tengano lì dentro

il  percorso non scritto dell’Eufrate–

 

Non bastano gli occhi del volto

che ci venga vicino sfiorando

ma il Nome profondo Il  più chiaro

che può inginocchiarli nel buio

Fino a quando bevendo

In Dio  

Non  riposa la mano

donne Mandei

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Dove sposano le volpi

21 domenica Lug 2013

Posted by Amina Narimi in Poesia

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Tag

acqua, arcobaleno, aria, Dreams, luog della luce, pioggia, Promessa, silenzio, volpi


Piaga solare armata

sui nodi delle querce

dorme la paura

spaccata nel sangue-

ribelle fuoco di montagna

zeppo di vento di doni

di sentieri liberi di ore

forti di dolcezza e fianchi

di pace carsica. l’alba

scuote ogni mattina il cielo

–in una sola attesa–

nel suo ventre minerario

fino al pozzo ai piedi della collina

dov’è poggia sul dorso delle mani

accogliendo il segno della tua

felicità. sei. chi è giunto

fin dove  lei farà in silenzio

immaginando quello che non vedono

gli occhi di un’immagine riflessa

terrà forte le cime coi piedi nel fondale

della diga immacolata

memoria della carne

                  non uscirà con l’arcobaleno

                                      dove sposano le volpi

Perchè così ha promesso

dove sposano le volpi

finchè scompare


nell’acqua come compimento

scintilla  con la voce. la veste

di rifrazioni sfuggite all’oblio

agli ordini del fato la devozione

restituendo le mani con  un’ala

per essere abbastanza innocente

mostrando il volto dell’amarti .un sogno

si raccoglie  in mille sfumature

nell’involucro purissimo dell’aria

si stacca in volo ed io trattengo quello

Un luogo nella  luce– fino a salvarla

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Senza un fiore ci tocchiamo

21 domenica Lug 2013

Posted by Amina Narimi in Poesia

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Tag

anima, bellezza, camini della fate, fiore, toccare


Lascio andare piano sulle mani

colline calanchi e segretezza

un codice matematico

ricavato dalla bibbia

tra ragnatele d’archi :

cambaciano le linee

di piccole incisioni

sfruttando le fessure naturali

mischiando malta ferro legno

e un lavoro sporco con la pietra

al cuore torna in suono

un palpito –piano piano eroso

come un filo di canzone-

le dita lente a domandarsi

il futuro dei miracoli

a brillare vive sui nostri d’oggi

polsi bianchi come ancelle

mentre l’acqua porta via

tanti strati di pittura

ai volti l’essenziale

c’è un sottile stelo tra i vigneti

e noi

a meditare sui camini delle fate

l’ignoto inesauribile

lo spazio vuoto

che quei pieni dovranno limitare

Così ci  amiamo.  l’anima

senza un fiore. ci tocchiamo

la grande bellezza

«camino di fata» Siamo in Cappadocia, un’ area della Turchia centrale che tanto tempo fa tre grandi artisti crearono lavorando a turno. Per primi cominciarono i vulcani che in dieci milioni di anni di furori depositarono due o trecento metri di cenere e lapilli per fabbricare tufo di tutti i colori; poi vennero correndo il vento e l’ acqua per sfidarsi a chi scolpiva nell’ altopiano le forme più bizzarre e fu una gara memorabile; quindi arrivarono gli uomini del Medioevo che davanti a tanta bellezza decisero di viverci letteralmente dentro. Per questo si infilarono nella pietra e dall’ interno scavarono case, chiese e villaggi interi, inventandosi un’ architettura dal didentro, un mondo alla rovescia. Una vera meraviglia. PAESE DEI CAVALLI – Secondo incerte ipotesi il nome Cappadocia deriverebbe dal persiano katpatukya, «il paese dei bei cavalli» che tanto piacevano ad Assurbanipal e a Ciro il Grande quando li ricevevano in regalo dai signori dell’ Asia Minore. Così è scritto nelle guide turistiche e in effetti la steppa dell’ altopiano anatolico (m 1.200) sembra fatta apposta per far correre i cavalli, anche se oggi da queste parti di cavalli se ne vedono pochi e piuttosto bruttini. Geograficamente parlando, comunque, la Cappadocia non esiste. Nemmeno sugli atlanti. E’ solo un nome che una volta si usava per gran parte della Turchia e col tempo ha finito per indicare – ma non per scritto – solo un pezzetto di quei 40 mila chilometri quadrati di tufo dove cittadine come Uchisar, Urgup, Goreme o Zelve paiono capitali di un regno fatato. VULCANI D’ ARTE – Sono una dozzina e sono stati a lungo i veri signori della regione. Ora sono tutti morti e se ne stanno all’ orizzonte incappucciati di neve, confusi tra cumuli di nuvole bianche. I più grandi sono l’ Erciyes Dag che arriva a 3.916 metri, e l’ Hasan Dag (m 3.253), che ottomila anni fa si fece vedere ancora attivo dagli uomini di Catal Huyuk, una delle più antiche città del mondo, che lo raffigurarono in eruzione sulle pareti di una delle loro case-santuario realizzando così il primo dipinto paesaggistico della storia dell’ arte. Ognuno di questi vulcani aveva un suo preciso carattere e sparava nel cielo ceneri più o meno calde, più o meno ricche di un minerale o di un altro. Per questo ogni eruzione ha lasciato il suo segno, sia nelle forme che nei colori e mentre nella Valle Rosa si vedono scenografie che paiono tagliate in una torta millefoglie, nella Valle Bianca torreggiano impudiche colonne che fanno sorridere le signore. CAMINI DELLE FATE – Per spiegare come ha fatto la natura a costruire questo mondo fantasy, la nostra guida Mustafà parla di «erosione selettiva» e invita a guardare il paesaggio che dà lezioni di geologia. Ma spiega volentieri perché le piramidi con un masso sulla punta si chiamano «camini delle fate» (chi altri può avere camini così fatti?), e dice che sua nonna gli raccontava che quel gruppetto di «camini» lungo la strada per Goreme è in realtà una famigliola pietrificata da chissà quale sortilegio: padre, madre e bambino davanti, nonna e nonno un po’ più indietro. Questo raccontava la nonna di Mustafà e lui, che ormai ha quarant’ anni, ripete la storia ai suoi bambini e ai turisti che accompagna per le valli. Che farebbero bene a crederci senz’ altro perché i «camini delle fate» ognuno li può guardare con gli occhi che vuole: nel Settecento il viaggiatore francese Paul Lucas credette di vedere busti umani, leoni, uccelli e altri animali, nelle forme dei massi che fanno da cappello ai pinnacoli; creature simili vide anche l’ inglese Ainsworth, a metà dell’ Ottocento. Poi di questi esseri non se ne seppe più nulla e si pensò solo alle fate. COSTRUIRE «IN NEGATIVO» – Pare che questa regione sia stata frequentata dagli uomini fin dal Paleolitico, ma gli autori delle meraviglie sono quelli che dal IV secolo dopo Cristo andarono a vivere nelle valli dove l’ acqua scorreva tra pareti di tufo e accumulava un po’ di terra da coltivare. Molti erano monaci e con famiglie e confratelli si rifugiarono tra le rocce per sfuggire a persecuzioni e assalti ma, anziché costruire pietra su pietra, decisero di scavare case e chiese dentro le pareti dei canyon, nelle piramidi puntute, nei «camini delle fate» e persino sottoterra. Così sì inventarono un’ architettura «in negativo» che è difficile anche da pensare perché la mente si confonde a immaginare come si possano fare stanze, navate, archi e capitelli, lavorando «per sottrazione». A noi abituati a costruire «per addizione» sembra impossibile riuscire a togliere esattamente la roccia che c’ è attorno a un’ idea per far apparire proprio lì, nel punto giusto, la volta di un soffitto, l’ angolo di un pilastro e – soprattutto – lo spazio vuoto che quei «pieni» dovranno limitare. GUERRA ALLE IMMAGINI – Per capire cosa si può creare così facendo bisogna entrare nelle chiese rupestri. Tra il IV e il XIV secolo ne vennero realizzate almeno 1200 e in circa trecento i monaci-pittori raccontarono coi pennelli tutta la loro fede. Facevano figure così belle che avrebbero potuto convertire chiunque. E proprio per questo l’ imperatore Leone III di Bisanzio, che voleva ridimensionare il potere del clero monastico, pensò di attaccare quelle immagini scatenando una campagna iconoclasta (VIII-IX secolo) che costrinse i monaci a rintanarsi sempre più in fondo alle loro caverne, mentre le furie scatenate da Bisanzio sfregiavano madonne e accecavano santi. Ma questa follia non fu l’ unico problema di quei monaci. Da secoli subivano le incursioni degli eserciti arabi che arrivavano dall’ altopiano per far razzia di tutto quello che c’ era da mangiare; una situazione che costrinse alcuni di loro a emigrare lontano e qualcuno forse arrivò fino a Matera e Gravina in Puglia. Così andarono le cose fino a poco dopo il Mille quando, finalmente, dagli altipiani dell’ Iran arrivarono i Turchi selgiuchidi che riportarono un po’ d’ ordine in tutta la regione. Fu allora che i monaci ripresero a dipingere e lo fecero con tale slancio che il 70 per cento delle immagini che conosciamo vennero realizzate proprio nei decenni che seguirono l’ arrivo dei turchi; gente così disponibile e tollerante che turbanti e aureole si mescolarono senza problemi anche nelle pitture delle chiese. COLONNE COME ZUCCHERO – Le cose più belle da vedere sono a Goreme dove le chiese scavate nei picchi di tufo hanno nomi poveri (Chiesa della Mela, della Fibbia, del Serpente, dei Sandali, e così via), ma forme e colori da principi. Le linee degli archi rimbalzano eleganti sui capitelli, si inseguono sulle volte, si inchinano tutte insieme attorno al volto di Cristo che s’ affaccia luminoso da cieli di lapislazzuli; angeli con ali d’ arcobaleno volano tra annunciazioni e natività, mentre apostoli a tavola per l’ ultima cena si guardano attorno con occhi sgomenti. Non c’ è uno spazio libero, tutto è dipinto. Persino colonne e capitelli hanno venature a zig-zag, rosse, gialle e azzurre, per suggerire agate preziose e rari alabastri. Nella Chiesa Oscura (XI secolo) sono così allegre che sembrano bastoncini di zucchero ritorto e fanno venire in mente certi quadri di De Chirico e Savinio. Chi le dipinse doveva sognare un paradiso tra il metafisico e il post-moderno. Tra queste bellezze dipinte si scoprono cose che non si vedono affatto nelle chiese d’ Occidente. Come la Madonna che beve una «coppa della verità» per dimostrare d’ essere Immacolata o quell’ enigmatica figuretta dall’ aria pagana (un dio dell’ acqua? un diavoletto?) che compare vicino a Cristo in certe scene di battesimo. ALIENA E MISTERIOSA – Zelve, la cittadina rupestre abitata fino agli anni Cinquanta, ci dà un’ idea di com’ erano i villaggi rupestri prima che venissero abbandonati. Le abitazioni erano scavate nelle pareti dei canyon, con gli ingressi a livello del terreno e scale interne per passare da un piano all’ altro; finestre minute davano aria e luce alle stanze che affacciavano sulla valle. Più in alto c’ erano le colombaie: centinaia, migliaia di minuscoli ingressi per i piccioni, che fornivano cibo tutto l’ anno e guano in quantità per i campi del fondovalle, dove grandi canali sotterranei convogliavano l’ acqua per evitare che scendendo a precipizio dall’ altopiano portasse via i campi coltivati. Ora Zelve mostra i segni del tempo. L’ acqua piovana penetra nelle fessure della pietra e ogni inverno, trasformandosi in ghiaccio, schianta la roccia facendo crollare grandi fette d’ abitato; per questo su molte pareti sono venuti allo scoperto brandelli di stanze, cunicoli e scale, che s’ aprono sul vuoto come occhiaie vuote. Così Zelve somiglia a una città di un pianeta da «Guerre stellari». «CITTA’ » SOTTERRANEE – Finora ne sono state individuate 160 e molti sono convinti che sotto ogni paesino della Cappadocia ce ne sia una. Se così fosse potrebbero essere oltre quattrocento. Ma attorno a queste «città» circolano troppe informazioni fantasiose e per non perdersi chissà dove è bene raccontarle ascoltando quello che dice Roberto Bixio, presidente del Centro Studi Sotterranei di Genova, che da anni esplora e studia queste cavità. Nessuno sa chi furono i primi a costruirle e neppure a che epoca risalgono le più antiche, anche se probabilmente presero forma un po’ alla volta, verso il IV-V secolo della nostra era, quando monaci e contadini cominciarono ad allargare cantine vecchie di chissà quanto. Così, generazione dopo generazione, i sotterranei diventarono sempre più grandi e articolati, anche perché era proprio laggiù che tutti si rifugiavano quando all’ orizzonte apparivano bande di razziatori. OPERA DELLA PAURA – La più imponente di queste cantine-rifugio è quella di Derinkuyu. Chi non soffre di claustrofobia può scendere a livelli sempre più bassi, fino a 50 metri di profondità, infilandosi in cunicoli che costringono a chinarsi fin quasi a procedere carponi. Che questo mondo sotterraneo sia figlio dalla paura lo si avverte bene quando si percorrono quei budelli stretti sbarrati da porte-macina che si chiudono rotolando fino a incastrarsi nella parete opposta. Trappole adatte a un film di Indiana Jones, con un buco al centro che permetteva ai rifugiati di infilzare gli assalitori che si presentavano davanti alla porta girevole. Non era facile uscire vivi da questo labirinto.

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Voleva tenere per te

19 venerdì Lug 2013

Posted by Amina Narimi in Poesia

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Tag

cibo semplice, cristalli, dialogo, fiato, mancanza, padre, ricordi, sabbia


Sono passata nel tempo

di due vetrine all’ingresso

bussolotti di sabbia, le forme dei sassi

dei cristalli di metà mondo

ogni suono caldo Nei calici

fragili  dita ridisegnavano

l’uno nell’altro –loro–

viaggiando.  Lui ha raccolto

meno mari di bicchieri

Lei viaggiava di più.

Prima della cucina

abbiamo pianto

dentro l’ombra

più ampia  del mare

terribile più dei vetri rotti

verso il mondo

dell’Altro Lato.

Implora una voce. Una breve

moratoria nella tiepida sorgente

coi pesci rossi umida e segreta

tra il canneto. senza altra pena

un appiglio :

-potremmo andare Noi

a prendere la sabbia  che manca

dai luoghi dei bicchieri dell’Est-

Ho sognato tua madre -sai-

di farmi trovare  per primo

con le pietre migliori negli occhi

all’ultimo viaggio

volevo tenere per Lei …

Non saremo mai pari. Ingannava

il tempo che resta nel viso

mettendo avanti  la sua bellezza

guerriera al dolore

tintinnante là fuori. al freddo.

Col cibo semplice delle mani

oggi

per qualche motivo ti ho trovato

a Istanbul- ci siamo immaginati-

abbiamo preso Fiato.

Istanbul J.Hoflehner

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