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amina narimi

~ ..con la fragilità che io immagino degli angeli quando spostano tra i fiori un buio d'aria

amina narimi

Archivi Mensili: aprile 2018

Ederlezi…

28 sabato Apr 2018

Posted by Amina Narimi in Poesia

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Tag

damascena, Ederlezi, frassini


Il vento cammina sopra la terra
sull’urna, il tuo volto, le nostre mani,
dal ramo innevato ai fiori di tiglio.
Un’Ederlezi, toccata dall’aria-
che era in me, prima degli occhi,
la cosa più intima e certa – salendo
ha percorso l’intero di ogni mio canto,
dal provenzale allo stabat del cuore,
dalla voce dell’anima fino alla pelle,
con un passo compreso tra la corsa e l’inchino.
Fra l’ultima luce e la porta di casa

è la tua mano intorno ai capelli
che scopre che sfiora che trova nel taglio
materna letizia e la pena più grande
confuse. Nell’arco alberato di gioia,
in un punto indistinto delle tue spalle,
ho nascosto le ossa del pianto più bello-
dove inizia invisibile un altro sentiero-
volevamo tacere,
_____________ tra l’origine e il cielo
del nostro viso
_____________ in entrambe le mani,
il respiro aperto e illuminato
dallo sguardo concorde
_________________ all’ultima stella.

L’odore dei frassini ha accompagnato
un uomo e una donna al loro congedo –
nella muta promessa di un semplice sogno
che ha nome antico di damascena-

e quello che credo, alle loro radici,
ora sta tutto innanzi a noi.

 

 

FB_IMG_1524951847645

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L’incontro

22 domenica Apr 2018

Posted by Amina Narimi in Poesia

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Un respiro solo ci separa
dal corpo, mentre canta : sono verso
tra la femmina che esonda e si protende
nel suo maschio, dirimpetto, e viceversa
Un esodo, è tutta la scrittura-
le bibbie in movimento, il benandante-
che cammina con il manto quasi albino
per scoprire il velo e rivelare,
come dice il verbo, al doppio cieco.

Rimanendo esposti alla visione
dell’incanto, senza divorarlo,
sconfiniamo nel convento di una pelle
che si muta in isabella e palomino,
con le orecchie, le antenate di ogni passo,
che si librano confuse nel destino
del ventre di una madre- calamita,
la medica che ha fame della pioggia,
per far dono di altra vita. Ed è la prima
ad uscire allo scoperto dalla grotta
ospitando il seme lucido nel vuoto
iscritto nel suo corpo, come un Dio-

quando cerca, sul filo della voce,
il suo amato dal volto inconosciuto
danzando fra pascoli e deserti
per l’ingenua meraviglia di intrecciare
il nudo e la splendenza dei suoi occhi.
Nel cedimento all’estasi più bella,

non altro, con la lingua delle messi,
che un odore di verbena sull’altare
di betulle, fieno greco e ribes bianco –
come il canto di qualcuno che ha nel seno
tutta l’aria immaginata- che trabocca
in sacrificio, nel perfetto di chi brucia

totalmente per offrire in una danza
il midollo del suo utero splendente –
che ha nome antico di misericordia –

fino al rosso genuino del contatto,
alla saliva che illumina l’incontro,
e, dolce più del vino, la sua pioggia.

Nell’ora più preziosa ci tocchiamo
con le mani che vanno nel profondo,
allo spiraglio della mandorla di luce,
dove i nostri templi sono aperti
visitati dal sole nella bocca
e tra le gambe, è il nuovo nato, che si allunga
combaciando le porziuncole di pace

in giardini di acqua e sangue, terra franca,
che riluce e ci fa mondi, benedetti
nell’eterna eucaristia. Dei nostri corpi

è questo il desiderio di consegna?
come il volto cristallino di un morente
che si affida al proprio cielo silenzioso?
o il neonato inerme alla sua terra?

Le acquenostre – che perdita stupenda!-
se consegnano in un riso l’impotenza
sussurrando: chi non perde la sua vita
non fa salvo quel respiro che si versa
sulla soglia sempre umida del cuore.

Punta-Manara-12-5-x-15-cm-2016-grafite-china-e-ricamo-su-tela_670

Disegno Sofia Rondelli

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Le ali della nostra casa gialla

19 giovedì Apr 2018

Posted by Amina Narimi in Poesia

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Ti ho incontrata con il sole nella testa,
con il guscio delle ossa malnutrito,
fra la bellezza religiosa del tuo tiglio
che portava i vostri pollini lontano.

“ O Signore, concedi a ciascuno la sua morte”
è stato il primo verso che ho lasciato,
fra la calce rosa dei tuoi fianchi,
eri ancora grata di esser viva,
mentre davi il consenso alla tua fine,
come un’albera al suo frutto quando cade.
È lì, dove ho posato le carezze,
accompagnando l’odore delle lacrime
nel dolce tremolio sopra la schiena,
per una comunione- come a mamma
con le bende calde sopra il male-
fra il colore consumato di una vita
e le lunghe astinenze dell’inverno-
per arrivare più lontano e far ritorno
a quel Natale, che ci ha tenute insieme,
con la tovaglia splendente su una tavola
di ruderi e di assi tumefatte –
fra i doni, un antichissimo trenino,
girava con la giostra dei cavalli,
un carillon, che ti ho lasciato in dono,
nascosto come un Dio nella montagna.
Era tutto naturale, il grande freddo,
per sua natura cavo, nella pancia,
faceva compagnia ad ogni orecchio,
come chi resiste al gelo ormai per sempre.

Il tetto è divenuto quell’aperto
che ti leggevo nell’elegia di Rainer,
e l’apertura musicale del celeste,
su queste piccole ginocchia coronate,
è la tua mano, oggi, che riposa
fra le stanze di altre mani, sussurrando
la Melodia ungherese in si minore
cantata da una giovane domestica-
Nel congedo, al tuo ultimo silenzio,

ti scrivo con la mano di una donna
che strofina sulla pelle dolorosa
la tua voce d’oro, e stupefatta
mi lascio attraversare dalla pioggia
della piccola morte fra le braccia.

– Questa lettera già lunga finiva proprio qui,
eppure lascia ancora che domandi
come ha fatto il tuo tiglio a sostenere
calmo e fiducioso tutto il peso,
l’immenso di una casa tanto gialla?
Come ha saputo orientare le sue curve
lungo i vicoli del legno, e respirare
seguendo i muri, le loro forti spinte,
ripartire l’aria giusta con la luce
assicurando nuova linfa ad ogni ramo?
I miei occhi hanno visto solo questo,
non appena si alzava un po’ di vento,
la celebrazione delle nozze,
nello spazio offerto dalle foglie,
tra la casa e le ali degli uccelli–

l’invisibile del bisso che rimane
la figura, che non mi sta davanti,
ma alla fonte, un’iride, la pianta
la radice prima della vita,
che tutta la giustifica, in un soffio.-

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Dammi da bere

15 domenica Apr 2018

Posted by Amina Narimi in Poesia

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Tag

acquabuona, incontro, pozzo, sete, sponsali


Un velo di Ninive copre gli occhi
sulla strada della nostra samaria,
forzando il mio respiro nell’apnea,
nel frangere di sassi il grano nuovo
che ha diviso il sangue dei fratelli,
partorendo sale nero. Intorno al pozzo
con altri occhi, e altre mani lacerate,
mi fermo a ricordare il girotondo
che ci ha cresciuto insieme. Nel deserto

come un morto appena nato, io ti aspetto
dove è imprevedibile l’incontro
e solido il silenzio, dove prego,
quando il passo ombreggiato che ti annuncia,
come seguendo orme senza suono,
rende questo luogo smisurato
il più intimo e privato, alla mia vita.
Con la semplicità di un sole apparso

spezzando la mia voce , mi domandi
con le parole più corte che conosco:
dammi da bere, ora, mia sorella.

Dammi da bere- ti rispondo- sono vuota
fra la polvere di casa, sradicata
con un grido in mezzo al petto, sono sola.

-Tra le stesse consonanti le vocali
luce dopo luce sono nuove
e ogni coppia è la rivelazione
che ripetere è il trapianto dell’amore-

se nell’attesa più profonda siamo acqua
che ritorna nella brocca, coniugando
il mareamaro di un dolore cristallino,
dove posare il capo ed una tenda,
nel sacro cedimento e l’abbandono
del corpo, consegnato al proprio sangue.-

Nella quiete del sorriso ci spogliamo
di ogni sicurezza- andando nudi
con la stessa tenerezza di un bambino
che respira nella pancia la domanda
da portare sulle labbra- la sua sete-
di buona compagnia e benevolenza,

che nella muta si trasforma al dito
per fare dell’incontro gli sponsali,
delle nostre debolezze il testimone
che tiene in mano la ferita, che ci salva.
Con il dono che attraversa gli assetati

diveniamo quella casa smisurata,
una fontana d’acqua, il cedimento
del respiro nella mano, il sonnoazzurro
che ci accarezza il viso, che ripara
con altre acque il pozzo benedetto.

 

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Immagine Yann Arthus-Bertrand

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la bionda meraviglia, albere uccelle fiumesse

08 domenica Apr 2018

Posted by Amina Narimi in Poesia

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Accanto al mormorio che so del mirto,
quando luccica di squame a primavera
sul verde tenerissimo dei rami
e quello scuro, in cima alla nughedda,
c’è la bionda meraviglia che si spoglia
della mandorla materna nella luce
e tutta la collina è solo attesa
del fiore della felce, l’invisibile,
che sale come un grappolo di cielo.
Con la semplicità di un fontanile

se la rosa dura il tempo di un destino
non può fare a meno di trovare
il fondamento il sacro scambio che rilega
il suolo amato con i larghi d’aria –
rivolta in sé e a un tempo tutta offerta
al bagliore della carne, che dischiude-
Nel profumo che rimane imperituro

“ sbaglieremmo a chiamare sempre Madre 
questo succo? Questo latte che ci dice della fonte,
di una promessa antica mantenuta?”

La luce che mi permette di vedere
e la figura che io vedo chiara
coincidono e gli occhi mi si chiudono
come una testa Khmer in abbandono…

Basta la tua mano di bambino
nella veste azzurrocenere dell’isola
ad aprire una ferita nella rosa
ricoprendo questi colli dei tuoi fiori.

Se una morte mi accogliesse in questo istante
troveresti sul mio volto il tuo paesaggio
la stessa compassione e il santimbraccio
tra le albere le uccelle e le fiumesse.

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L’acqua nascosta nel piccolo melo

06 venerdì Apr 2018

Posted by Amina Narimi in Poesia

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L’acqua nascosta nel piccolo melo
è come un vangelo fiorito sul capo-
che ad ogni curva si muove stupito
di quella donna che porta la neve
in mezzo alle scapole, e tutta la terra 
distesa sul petto del firmamento-

con la stessa dolcezza del biancomangiare
quando esce dal seno per un bambino.
Dicevi così, del bene più alto,
che è simile all’acqua quando discende,
che in una ciotola informe e dorata
ha impastato le stelle ai nostri natali.
Le parole non mentono, era il tuo canto,
fioriscono il verde di primavera :
se l’acqua discioglie, così rilega-
se ammorbidisce i tuoi lunghi capelli,
fa gli occhi chiari in ogni vivente-
nei luoghi più bassi. Dimora la vita

nel ventre dei fiori, cercala sempre,
nei sottovasi, dai buchi degli alberi
porta alla bocca, con le tue mani,
come una radice, la sua tenerezza,
come uno speco con la sorgente,
o la montagna che sfiora una nuvola,
se le posa sul capo il suo breve mantello.

Per amore e per forza Noi è acquabuona
che danza negli organi dei nostri corpi,
se l’orgasmo è nel canto del loro incontro
il primosale che scende bagnato
nell’umida coppa della poesia.

l'acqua nascosta nel piccolo melo

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è la tua casa, il lunedì dell’angelo

02 lunedì Apr 2018

Posted by Amina Narimi in Poesia

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Immensa e illuminata, come ieri
l’ombra delle nostre spalle unite
tra il vento e l’acqua del torrente,
è la tua casa, il lunedì dell’angelo,
fra le ossa incise e dipinte 
sulle piccole uova rumene
che ho nascosto fra l’erica e i cardi.
Coi capelli raccolti all’indietro,

per ascoltare col viso l’alburno
della betulla bianca al cancello
ho mescolato i miei piedi alla luce
del sedano bruno tra i rovi,
raddrizzando una giovane pianta
che ancora tremava di neve-
dove la terra si è smossa
dove si è aperta la ferita,
troverai una chiocciola, in dono,
e un sassobambino che gioca-
con lucide vene di fiume,
fra le braccia dell’altalena-
al ritorno, che sta crescendo.

 

sofia rondelli

Disegno Sofia Rondelli

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Il profumo della passione

01 domenica Apr 2018

Posted by Amina Narimi in Poesia

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Pesah


Ci hai narrato del poeta che viaggiava
impastando le parole per guarire.
Che ne è stato dell’annuncio breve,
di quel corpo strappato dalla storia?
Chi non ha saputo fare insieme
della pelle con la sua resurrezione?
Lavarsi non è un gesto quotidiano
e il battistero la morte che rinasce?
Il passaggio i suoi gesti e ogni cura
non danno sangue, nella particola o nel pane,
ma nella voce che rialza che ci chiama;
il suo volto luminoso è la postura,
l’abbassarsi a servire chi è piegato,
la donna curva che celebra il suo Dio,
che si solleva benedetta dentro il sabato,
proclamando la parola, stupefatta.

 

Quanto coraggio per mettersi in strada
per accogliere in grembo la mano protesa
fino alle acque, al canto di Myriam
che col tamburello fa festa, diritta.
Non accade fulminea la liberazione-
viene piano dal basso, la saliva celeste,
con le sue piaghe incancellabili–
come ogni morte, mai immediata,
se Lazzaro esce ancora legato,
e potrà camminare, sciolte le bende,

risorgere allora è un lungo affidarsi?
È una donna che mette tutta l’offerta
nel tempio, due spiccioli, quello che ha?

 

Mancavano solo due giorni alla Pasqua
e Marco racconta di quando a Betania
entrò una donna, da Simone il lebbroso,
con l’alabastro di nardo purissimo-
che ruppe versando l’unguento prezioso
fra un gesto solenne e insieme di cura,
il più intimo forse, le mani sul capo
di quel giovane uomo seduto più in basso
( lo spreco fu grande, si disse alla tavola
dove nessuno pensava alla morte)

col grande silenzio di chi ti accompagna
a un lutto- un tacere che riempie la gola
di tutto l’amore che aveva da offrire:
cancellare la puzza di morte alla tavola
preparando il suo corpo, come una sposa.

 

Porteremo sul petto all’infinito
i segni al costato ai piedi e alle mani,
ma è nulla la morte verso il profumo,
il suo largo d’aria meraviglioso,
se quella che sembra una tomba soltanto
è il principio bagnato di resurrezione
che rende possibile a un’altra vita
il coraggio di scrivere di avere udito
una voce nel vento la stessa poesia
di chi ha ripreso a respirare
dal seme disceso dentro la terra-

 

un dolore cristiano che non fa morire,
che ci accompagna e lento si immerge
nel battesimo sepolto
nella morte di Gesù.

sofia rondelli Pietas

 

Immagine Sofia Rondelli

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