Tace la semente nel suo grembo


L’albero ha già superato il vento
con la parola bene e la sua sera
oltre il verdeluce dei frutteti
schiarisce i nostri corpi in una coppa.

Tace la semente nel suo grembo
il tocco sottile che accompagna
l’umido dei fiori
lo scintillio della movenza.

Così la pelle dà alla luce chi fiorisce
la stella più lontana e il filo d’oro
che ci aduna, come il primo sale,
fra le acque che vanno in matrimonio.

Gioielli Rubati 246: Mariangela Ruggiu – Guido Caserza – Iole Toini – Amina Narimi – Alessandro Rossini – Giovanna Bemporad – Luciana Luzi – Lincol Martin.


almerighi

ti scrivo, pregando che in una lettera si apra
questo grumo duro che non è gemma
non seme, non lievito
.
è solo silenzio, oppure un pensiero continuo
che non dorme con me, mi aspetta lucido
ad ogni risveglio
.
c’è stato il tempo felice degli occhi bambini
ore passate a tessere pensieri e seguirne le trame
e con le parole abbiamo costruito case
liberi come se fosse un gioco, anche se
spezzavamo il dolore come il pane
.
quando non osavo poesia e mi nascondevo
nei timori della mia nullità, ora invece
dopo mille passi, do il nome alle parole
senza averne paura, ora che ho perso
la prima pelle e non ne ho un’altra
ma non temo di scrivere poesia
.
ora che gli amici hanno preso un altro viaggio
sono pochi ormai ad aprire le mie mani
.
non c’è più la neve che ispira il canto

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Un’ ederlezi toccata dall’aria

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Il vento cammina sopra la terra
sull’urna, il tuo volto, i leccini argentati.
Un’ederlezi toccata dall’aria,
la cosa più intima e certa, saliva
con il passo compreso tra una danza e l’inchino
fra l’ultima luce e la porta di casa
che scopre che sfiora che trova alla soglia
materna letizia e la pena più grande.

Nell’arco alberato, in un punto indistinto,
ho nascosto le ossa del pianto più bello
dove inizia invisibile un altro sentiero
tra l’origine e il cielo del nostro viso

un respiro confuso e illuminato
dallo sguardo concorde
all’ultima stella.

Nostre care e mute gemelle

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Dorme l’uccella al tramonto
rannicchiata sul proprio feto-
un luogo stremato di offerta
mutevole culla perpetua
sotto le palpebre chine
sulle promesse dei fiori;
come ogni misericordia,
allattano e gemono insieme
feconde di ogni miseria
lo spazio di una preghiera.

Milioni di stelle già nate
non vedranno forse la luce,
divorate dai buchi neri,
ma l’orlo del loro orizzonte,
che rallenta e mangia ogni evento,
non potrà sfuggire alla fame
senza stelle da consumare.

Notre care e mute gemelle
il vostro addome più magro
riposa su grandi preghiere
di un vento che gira i fogli
del ibro scritto nel cielo;

dove avete perso le braccia
la sera è un abbozzo, io credo,
la fioritura di un’ala
che può crescere fino alla luce
nella stanza dei vostri tesori.

Amina Narimi

Immagine Antonella Schiralli

Il primo sale dell’harmonia

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Inizia dal basso < dicevi > la luce
innamorando prima delgi occhi,
muovendosi accanto come una madre
nell’andirivieni al balcone, in penombra,
scostando le tende, mosse e raccolte,
coi piedi nulli e i polsi leggeri-
amichevoli e monadi universali
folli e concordi
allo stesso progetto.

Così viene al mondo con l’h davanti,
con lo spirito aspro ‘ che muove all’insieme,
il primo sale dell’harmonia.
Un lungo cammino fatto di adagio
che si fa strada sulle ginocchia,
l’interno morbido delle parole-

con mille foglie dentro alle orecchie,
e una piccola casa che dondola il legno
di anziane cicogne, le sillabe dolci,
che donano all’albera il biancomangiare.

Il gesto mansueto d’apertura


Dove il corpo stava per finire
mangiato sotto colpi di parole,
non ha perso la sua infanzia, né l’amore,
al tuo cospetto, in pieno giorno, minotauro
che hai seguito il suo sudore per la carne.
Dove tu hai intravisto un pentolone
con la maga che lo gira, c’è una donna
che mantiene le ossa cave per volare;
quanto più la senti oscura lei rimesta
delle erbacce nella terra con i fiori,
con lo stesso amore dei tuoi versi-
un richiamo irresistibile a scavare
negli stagni come fossero dei mari,
con le gambe a penzoloni nella gioia
mettendo semi di sambuco, aria di menta.
Non hai scorto, dalla tua più alta luce,
per uno stelo d’erba il viso in lacrime,
né l’orgasmo della legna dentro il fuoco
per l’acqua da scaldare nel vivaio.
E certo sono minimi i suoi occhi,
pelle ed ossa di eserciti instancabili,
nelle crepe della siccità,
ma la febbre dell’acqua che risale
è un arco spalancato dove tace
il gesto mansueto d’apertura.

Dal buio io la sento respirare
mentre scrive la sua maternità
con un chiarore nero intorno al cuore,
mentre racconta al suo ritorno di qualcosa
che pur battendo così forte contro il petto
ha fatto risalire dal dolore
un mite dondolio da ramo a ramo,
qualcuno che si dissangua in benedetto
sulla soglia sempre umida del cuore.