da quel momento cominciò a vibrare
la tua membrana tesa cielo a cielo,
facendosi piccola e dopo dilatata,
con il ritmo che diede vita a una danza.
-Dov’era l’aria, che cosa ti avvolgeva
se respiravi senza alcun respiro?
Chi ti proteggeva? Era di notte?–
Un oceano celeste, tutte le membrane
confuse alle stringhe tinte di oro rosso.-
Era l’ardore profondo a brillare,
il germinale bambino di luce,
che offriva calore al suono universo
formando l’impronta indelebile e chiara
da così lontano, per poi ritirarsi
in quel punto, il più piccolo, da equivalere
al massimo grado di ogni estensione.?
Così nacque il fuoco, da questo calore
e, dopo, la luce, che adesso mangiamo?
Con una parola un’onda una voce,
così è dei colori di tutte le piume
che sono ancora rinchiusi nell’uovo,
nel corpo nero di un arcobaleno-
le gocce i globuli i punti, una perla,
la nube squarciata da quella luce,
la tua fornace in perfetto equilibrio
si è dilatata andando all’amore,
che ancora viaggia nel suono più antico,
portando i semi dai primi nidi
in cui l’universo ha preso a riunirsi.
E’ questa danza che schiaccia l’oblio,
il suono che resta della tua voce–
che definisce la forma alle cose
riportandole insieme dentro l’origine
di quelle stringhe confuse alle brane
fino al pulviscolo dentro la gola
e dentro la pioggia –tutta indistinta–
un’ombra soltanto, se può proiettarsi
sopra le mani, che stendo, bianchissima,
un residuo speciale, come gli anfratti
della mia casa, che un lume soltanto
può rischiarare, se sono vicini
a quella tenue fonte di luce,
fino al confondersi delle falene-
per ritornare alla vita assoluta
al principio silente, a vibrare di nuovo
nell’hara del mantra, al fondo di un amen
nella dolcezza del suono immortale
delle due curve dell’ Oṁ che sorreggono
il bindu riunito in un unico punto
su di un velario, ostenso, per sempre.
