Accanto al mormorio che so del mirto,
quando luccica di squame a primavera
sul verde tenerissimo dei rami
e quello scuro, in cima alla nughedda,
c’è la bionda meraviglia che si spoglia
della mandorla materna nella luce
e tutta la collina è solo attesa
del fiore della felce, l’invisibile,
che sale come un grappolo di cielo.
Con la semplicità di un fontanile

se la rosa dura il tempo di un destino
non può fare a meno di trovare
il fondamento il sacro scambio che rilega
il suolo amato con i larghi d’aria –
rivolta in sé e a un tempo tutta offerta
al bagliore della carne, che dischiude-
Nel profumo che rimane imperituro

“ sbaglieremmo a chiamare sempre Madre 
questo succo? Questo latte che ci dice della fonte,
di una promessa antica mantenuta?”

La luce che mi permette di vedere
e la figura che io vedo chiara
coincidono e gli occhi mi si chiudono
come una testa Khmer in abbandono…

Basta la tua mano di bambino
nella veste azzurrocenere dell’isola
ad aprire una ferita nella rosa
ricoprendo questi colli dei tuoi fiori.

Se una morte mi accogliesse in questo istante
troveresti sul mio volto il tuo paesaggio
la stessa compassione e il santimbraccio
tra le albere le uccelle e le fiumesse.