Lascio andare piano sulle mani
colline calanchi e segretezza
un codice matematico
ricavato dalla bibbia
tra ragnatele d’archi :
cambaciano le linee
di piccole incisioni
sfruttando le fessure naturali
mischiando malta ferro legno
e un lavoro sporco con la pietra
al cuore torna in suono
un palpito –piano piano eroso
come un filo di canzone-
le dita lente a domandarsi
il futuro dei miracoli
a brillare vive sui nostri d’oggi
polsi bianchi come ancelle
mentre l’acqua porta via
tanti strati di pittura
ai volti l’essenziale
c’è un sottile stelo tra i vigneti
e noi
a meditare sui camini delle fate
l’ignoto inesauribile
lo spazio vuoto
che quei pieni dovranno limitare
Così ci amiamo. l’anima
senza un fiore. ci tocchiamo
la grande bellezza

«camino di fata» Siamo in Cappadocia, un’ area della Turchia centrale che tanto tempo fa tre grandi artisti crearono lavorando a turno. Per primi cominciarono i vulcani che in dieci milioni di anni di furori depositarono due o trecento metri di cenere e lapilli per fabbricare tufo di tutti i colori; poi vennero correndo il vento e l’ acqua per sfidarsi a chi scolpiva nell’ altopiano le forme più bizzarre e fu una gara memorabile; quindi arrivarono gli uomini del Medioevo che davanti a tanta bellezza decisero di viverci letteralmente dentro. Per questo si infilarono nella pietra e dall’ interno scavarono case, chiese e villaggi interi, inventandosi un’ architettura dal didentro, un mondo alla rovescia. Una vera meraviglia. PAESE DEI CAVALLI – Secondo incerte ipotesi il nome Cappadocia deriverebbe dal persiano katpatukya, «il paese dei bei cavalli» che tanto piacevano ad Assurbanipal e a Ciro il Grande quando li ricevevano in regalo dai signori dell’ Asia Minore. Così è scritto nelle guide turistiche e in effetti la steppa dell’ altopiano anatolico (m 1.200) sembra fatta apposta per far correre i cavalli, anche se oggi da queste parti di cavalli se ne vedono pochi e piuttosto bruttini. Geograficamente parlando, comunque, la Cappadocia non esiste. Nemmeno sugli atlanti. E’ solo un nome che una volta si usava per gran parte della Turchia e col tempo ha finito per indicare – ma non per scritto – solo un pezzetto di quei 40 mila chilometri quadrati di tufo dove cittadine come Uchisar, Urgup, Goreme o Zelve paiono capitali di un regno fatato. VULCANI D’ ARTE – Sono una dozzina e sono stati a lungo i veri signori della regione. Ora sono tutti morti e se ne stanno all’ orizzonte incappucciati di neve, confusi tra cumuli di nuvole bianche. I più grandi sono l’ Erciyes Dag che arriva a 3.916 metri, e l’ Hasan Dag (m 3.253), che ottomila anni fa si fece vedere ancora attivo dagli uomini di Catal Huyuk, una delle più antiche città del mondo, che lo raffigurarono in eruzione sulle pareti di una delle loro case-santuario realizzando così il primo dipinto paesaggistico della storia dell’ arte. Ognuno di questi vulcani aveva un suo preciso carattere e sparava nel cielo ceneri più o meno calde, più o meno ricche di un minerale o di un altro. Per questo ogni eruzione ha lasciato il suo segno, sia nelle forme che nei colori e mentre nella Valle Rosa si vedono scenografie che paiono tagliate in una torta millefoglie, nella Valle Bianca torreggiano impudiche colonne che fanno sorridere le signore. CAMINI DELLE FATE – Per spiegare come ha fatto la natura a costruire questo mondo fantasy, la nostra guida Mustafà parla di «erosione selettiva» e invita a guardare il paesaggio che dà lezioni di geologia. Ma spiega volentieri perché le piramidi con un masso sulla punta si chiamano «camini delle fate» (chi altri può avere camini così fatti?), e dice che sua nonna gli raccontava che quel gruppetto di «camini» lungo la strada per Goreme è in realtà una famigliola pietrificata da chissà quale sortilegio: padre, madre e bambino davanti, nonna e nonno un po’ più indietro. Questo raccontava la nonna di Mustafà e lui, che ormai ha quarant’ anni, ripete la storia ai suoi bambini e ai turisti che accompagna per le valli. Che farebbero bene a crederci senz’ altro perché i «camini delle fate» ognuno li può guardare con gli occhi che vuole: nel Settecento il viaggiatore francese Paul Lucas credette di vedere busti umani, leoni, uccelli e altri animali, nelle forme dei massi che fanno da cappello ai pinnacoli; creature simili vide anche l’ inglese Ainsworth, a metà dell’ Ottocento. Poi di questi esseri non se ne seppe più nulla e si pensò solo alle fate. COSTRUIRE «IN NEGATIVO» – Pare che questa regione sia stata frequentata dagli uomini fin dal Paleolitico, ma gli autori delle meraviglie sono quelli che dal IV secolo dopo Cristo andarono a vivere nelle valli dove l’ acqua scorreva tra pareti di tufo e accumulava un po’ di terra da coltivare. Molti erano monaci e con famiglie e confratelli si rifugiarono tra le rocce per sfuggire a persecuzioni e assalti ma, anziché costruire pietra su pietra, decisero di scavare case e chiese dentro le pareti dei canyon, nelle piramidi puntute, nei «camini delle fate» e persino sottoterra. Così sì inventarono un’ architettura «in negativo» che è difficile anche da pensare perché la mente si confonde a immaginare come si possano fare stanze, navate, archi e capitelli, lavorando «per sottrazione». A noi abituati a costruire «per addizione» sembra impossibile riuscire a togliere esattamente la roccia che c’ è attorno a un’ idea per far apparire proprio lì, nel punto giusto, la volta di un soffitto, l’ angolo di un pilastro e – soprattutto – lo spazio vuoto che quei «pieni» dovranno limitare. GUERRA ALLE IMMAGINI – Per capire cosa si può creare così facendo bisogna entrare nelle chiese rupestri. Tra il IV e il XIV secolo ne vennero realizzate almeno 1200 e in circa trecento i monaci-pittori raccontarono coi pennelli tutta la loro fede. Facevano figure così belle che avrebbero potuto convertire chiunque. E proprio per questo l’ imperatore Leone III di Bisanzio, che voleva ridimensionare il potere del clero monastico, pensò di attaccare quelle immagini scatenando una campagna iconoclasta (VIII-IX secolo) che costrinse i monaci a rintanarsi sempre più in fondo alle loro caverne, mentre le furie scatenate da Bisanzio sfregiavano madonne e accecavano santi. Ma questa follia non fu l’ unico problema di quei monaci. Da secoli subivano le incursioni degli eserciti arabi che arrivavano dall’ altopiano per far razzia di tutto quello che c’ era da mangiare; una situazione che costrinse alcuni di loro a emigrare lontano e qualcuno forse arrivò fino a Matera e Gravina in Puglia. Così andarono le cose fino a poco dopo il Mille quando, finalmente, dagli altipiani dell’ Iran arrivarono i Turchi selgiuchidi che riportarono un po’ d’ ordine in tutta la regione. Fu allora che i monaci ripresero a dipingere e lo fecero con tale slancio che il 70 per cento delle immagini che conosciamo vennero realizzate proprio nei decenni che seguirono l’ arrivo dei turchi; gente così disponibile e tollerante che turbanti e aureole si mescolarono senza problemi anche nelle pitture delle chiese. COLONNE COME ZUCCHERO – Le cose più belle da vedere sono a Goreme dove le chiese scavate nei picchi di tufo hanno nomi poveri (Chiesa della Mela, della Fibbia, del Serpente, dei Sandali, e così via), ma forme e colori da principi. Le linee degli archi rimbalzano eleganti sui capitelli, si inseguono sulle volte, si inchinano tutte insieme attorno al volto di Cristo che s’ affaccia luminoso da cieli di lapislazzuli; angeli con ali d’ arcobaleno volano tra annunciazioni e natività, mentre apostoli a tavola per l’ ultima cena si guardano attorno con occhi sgomenti. Non c’ è uno spazio libero, tutto è dipinto. Persino colonne e capitelli hanno venature a zig-zag, rosse, gialle e azzurre, per suggerire agate preziose e rari alabastri. Nella Chiesa Oscura (XI secolo) sono così allegre che sembrano bastoncini di zucchero ritorto e fanno venire in mente certi quadri di De Chirico e Savinio. Chi le dipinse doveva sognare un paradiso tra il metafisico e il post-moderno. Tra queste bellezze dipinte si scoprono cose che non si vedono affatto nelle chiese d’ Occidente. Come la Madonna che beve una «coppa della verità» per dimostrare d’ essere Immacolata o quell’ enigmatica figuretta dall’ aria pagana (un dio dell’ acqua? un diavoletto?) che compare vicino a Cristo in certe scene di battesimo. ALIENA E MISTERIOSA – Zelve, la cittadina rupestre abitata fino agli anni Cinquanta, ci dà un’ idea di com’ erano i villaggi rupestri prima che venissero abbandonati. Le abitazioni erano scavate nelle pareti dei canyon, con gli ingressi a livello del terreno e scale interne per passare da un piano all’ altro; finestre minute davano aria e luce alle stanze che affacciavano sulla valle. Più in alto c’ erano le colombaie: centinaia, migliaia di minuscoli ingressi per i piccioni, che fornivano cibo tutto l’ anno e guano in quantità per i campi del fondovalle, dove grandi canali sotterranei convogliavano l’ acqua per evitare che scendendo a precipizio dall’ altopiano portasse via i campi coltivati. Ora Zelve mostra i segni del tempo. L’ acqua piovana penetra nelle fessure della pietra e ogni inverno, trasformandosi in ghiaccio, schianta la roccia facendo crollare grandi fette d’ abitato; per questo su molte pareti sono venuti allo scoperto brandelli di stanze, cunicoli e scale, che s’ aprono sul vuoto come occhiaie vuote. Così Zelve somiglia a una città di un pianeta da «Guerre stellari». «CITTA’ » SOTTERRANEE – Finora ne sono state individuate 160 e molti sono convinti che sotto ogni paesino della Cappadocia ce ne sia una. Se così fosse potrebbero essere oltre quattrocento. Ma attorno a queste «città» circolano troppe informazioni fantasiose e per non perdersi chissà dove è bene raccontarle ascoltando quello che dice Roberto Bixio, presidente del Centro Studi Sotterranei di Genova, che da anni esplora e studia queste cavità. Nessuno sa chi furono i primi a costruirle e neppure a che epoca risalgono le più antiche, anche se probabilmente presero forma un po’ alla volta, verso il IV-V secolo della nostra era, quando monaci e contadini cominciarono ad allargare cantine vecchie di chissà quanto. Così, generazione dopo generazione, i sotterranei diventarono sempre più grandi e articolati, anche perché era proprio laggiù che tutti si rifugiavano quando all’ orizzonte apparivano bande di razziatori. OPERA DELLA PAURA – La più imponente di queste cantine-rifugio è quella di Derinkuyu. Chi non soffre di claustrofobia può scendere a livelli sempre più bassi, fino a 50 metri di profondità, infilandosi in cunicoli che costringono a chinarsi fin quasi a procedere carponi. Che questo mondo sotterraneo sia figlio dalla paura lo si avverte bene quando si percorrono quei budelli stretti sbarrati da porte-macina che si chiudono rotolando fino a incastrarsi nella parete opposta. Trappole adatte a un film di Indiana Jones, con un buco al centro che permetteva ai rifugiati di infilzare gli assalitori che si presentavano davanti alla porta girevole. Non era facile uscire vivi da questo labirinto.
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