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amina narimi

~ ..con la fragilità che io immagino degli angeli quando spostano tra i fiori un buio d'aria

amina narimi

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Con le membrane lucide dei sogni

09 domenica Feb 2014

Tag

acquabuona, alberi, anima, cerva, Charley Case, Rimani, silenzio, sogni, Tomohiro Inaba


Tomohiro Inaba 2L’elegia ci fa trovare, al di là

dell’albero più ferito,

di Paesi e continenti, l’acquabuona,

una cascata di perle e di animali,

dove cercavo il mio menhir

sulla riva del laghetto azzurro.

Intatta immersa e protetta dall’acqua fresca

aveva gli occhi aperti come fosse viva

Ridarle vita con otto stagioni

fu l’unica cerimonia nel cuore dell’inverno

profondo, portare licheni per nutrirla

rimuovendo la brina dagli alberi.

Mi toccò i capelli.

Ti adoro per la dolcezza, per le mani

e così sia,

anche nel silenzio degli uccelli,

canta.

è un miracolo nudo la nostra creatura

le linee della mano tanti rami e

ad ogni dito il suo respiro fa gli anelli

un panno bianco, di cielo in cielo

nel canto d’emergenza coincide con i sensi,

a un poi, che calma, che trascina

la mia immagine nel Vuoto

dove trovo riparo. dove ti riveli

con il viso mentre mangi

mentre raccogli nascosta la mia mano

ti do un nome, allargo tutti i rami

per avere ancora suoni e somiglianza.

Nella danza fragile precipita il respiro

preme il cuore, dentro quella crepa,

la luce, per quel minimo d’azzurro,

ti è salita fino agli occhi dalla pozza

ho tolto le parole per amarti,

cerva di un solo fianco, nel silenzio,

venuta via dall’ombra.

è con l’acqua che ti fascio il viso, ora,

con le membrane lucide  dei sogni,

sei un canale di biancore

tra i rami fino al petto

il segno che racconta un corpo

porta  il tuo Nome adesso –Rimani–

nel respiro degli alberi,

l’impronta più Viva

tra tutte le voci

Anima di gioia

sul bianco del foglio-

senza grida.

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Pubblicato da Amina Narimi | Filed under Poesia

≈ 2 commenti

Ha scritto per il corpo

23 lunedì Set 2013

Posted by Amina Narimi in Poesia

≈ 2 commenti

Tag

anima, corpo


Legando l’emozione

al grido di dolore primordiale-

la storia immaginata senza tetto

tra le mani- stringo le foglie d’erba

e Whitman

con occhi fermi di bellezza circolare

l’incontro con i resti di natura

Ci sono sguardi  in fondo al  verde

pupille vere

Geni dei bambini che non hanno

un posto dove stare a testa in su

ciò che nasce non è altro sulla foglia:

un  volto geme nel suo cadere dentro

a piene mani qualcosa ch’è rimasto

nella schiuma  dei giorni profumata

un’acqua di bambino la fonte dei segreti

mai finisce

l’attesa del respiro, le mani nella gioia

il Nome dell’incanto immaginato

nel punto culminante d’innocenza

ha preso in mano la paura e ha fatto il bianco

avvolgendo il cuore  d’altra pelle  in una vasca

ha scritto per il corpo irrorato la sua carne:

un vento largo si è scucito  sopra il seno

come il tassello di un più vasto mosaico

-un atlante eterogeneo, un’anima che passa-

compone gli orditi calcola per giochi

di forme liquide, di cosmogonie,

le vie dei canti stanno nell’amore

il gesto-magia che imprime sulle tracce

dando vita a colline con gesti di grazia

un disegno complesso e affascinante

Se vieni più vicino se ti chini per guardarlo

si trasforma in un altro e nuovo bianco

“firmando per l’anima ed il corpo“

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Sei un uccello dentro i polmoni

15 domenica Set 2013

Posted by Amina Narimi in Poesia

≈ 1 Commento

Tag

anima, cervo, elefante, martora, rinascere, Sogno


Lo ritrovo qui, nella mia savana

all’altezza degli occhi in Trasparenza

tra le pieghe dell’azzurro l’elefante

–già andato avanti–

le orecchie  dormono come ali

un’idea dopo l’altra al ritmo di una marcia,

che più m’intenerisce al mondo,

incrollabile di fedeltà viaggiatore Vero

sul bordo bianco ritorna ai posti amati

per anelli. Io credo che Lui sogni una martora

la macchia bianca nella gola come un cuore

lo scavare nelle tane, il suo passo inconsistente

nella neve. del manto bruno ami la lirica

mai livida di freddo dove vive il suo idioma

a che prezzo si accuccia nel silenzio

dell’inverno. Quando amina lascerà il mio corpo

non è per elefante amato che vorrei rivivere

nel giocoliere di strapiombi

d’intesa con l’altezza, un cervo

a prendere l’aria con i piedi

nelle discese acrobata violento

Io credo che Lui sogni un elefante

libero di urtare al buio che gli passa accanto

gli anni leggeri sulle spalle di millemila

storie messe a dimora  nitide di caldo

rovente, immaginarlo quando la notte aiuta

a vedere il suo ritorno incerto rovesciando

nella pelle il cuore l’ombra grande

Nell’atto d’unione, nel desiderio Tu

sei un uccello dentro i polmoni

così grande cresci per bellezza

Non è Te che vorrei essere domani

al riparo dei boschi quel cervo. solo

per continuare a sognarti

come l’Altro da me che amo

Alpi Marittime- Fotografia di Luigi Maria Corsanico Nastasi

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Come un dolore perfetto

08 domenica Set 2013

Posted by Amina Narimi in Poesia

≈ 4 commenti

Tag

anima, Carne, Dolore perfetto, Herat, notte, quercia, Rocca di Badolo, sentire


Ho allungato la strada di casa

per fare minore la notte

fin su alla Rocca di Badolo,

dalla mia quercia, a toccare

se trattiene ancora il calore del giorno

Vedessi che bella che è

con le punte illuminate

non sai dove finiscono i rami

ed hanno inizio le stelle.

 

 

 

Sono scesa dall’auto sfilando via la giacca

pungeva l’aria pochi passi..poi non più

tutta la schiena era contro, dentro di Lei

che chiedeva: “Come va con il dolore, l’anima?”

 

Come poggiare all’orecchio una conchiglia

se spingi forte la schiena contro la quercia di Badolo

puoi sentire addosso la carne di tutto il cielo di Herat e le stelle

ti vengono contro senza dolore. Non so dire di più,

ma non è meno di così. chi ami, se solo sapesse

a che ora una quercia preme a quel modo la schiena

se aprisse a quell’ora ognivolta  i palmi delle sue mani

troverebbe parole indicibili e chiaro negli occhi. incessante

un taglio.un dito dopo l’altro. sulle mani

“ ti amo”. come un dolore perfetto.

Quanti calici di parole ancora

vergini troveranno

nelle tracce degli anelli

che non sono state

proferite. Com’è forte la carne

dov’è debole l’anima

nella foresta sacra!

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L’uccello canterà più forte ay mama

02 venerdì Ago 2013

Posted by Amina Narimi in Poesia

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Tag

anima, canto, danza, dono, fiore, Ombra, pelle, Silbaco, Sogno, Uirapuru


Accade che suoni lontanissimi

rimbalzino davanti tra le cose

una tempesta eterna dell’anima

-una delle meno conosciute-

serra di leggende di miraggi, ma

se gratti la terra dell’oasi se raschi la pelle

per tenere l’emorragia se appena cuci i lembi

coi tendini dei  salmi sotto più a fondo le ossa

sono ancora viventi le colate di ghiaccio

hanno trine negli occhi  e boschi di pioppi bianchi

tra le gambe azzurre laghetti di balene

minuscoli pastori Noi viandanti

umidi pascoli  tra le mani

cespugli spinosi per corona

sotto i piedi del mondo nel punto più a sud

dell’anima c’è un Luogo senza memoria,

una pelle che fa ruotare lo sguardo

dai gesti miti, un linguaggio sottile di tenerezza, là

dove si conduce il fuoco nella canoa

al nuovo capanno, per la festa dei fiori

di lana cantando l’amore delle balene,

quando il rombo del fiume diventa assordante

e le stelle tinte dal nero del Silbaco

l’uccello canterà più forte ay ay mama… ay ay mama

uirapuru

facendo sorgere l’albero nell’orecchio

le radici nella mente

la chioma nel cielo intatto dell’anima

Io posso solo danzare portandoti un fiore spontaneo

                                                             per ritrovare l’Ombra dell’Uirapuru

tu puoi sentire avverarsi un desiderio

caduto per sopravvivere un sogno?

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Senza un fiore ci tocchiamo

21 domenica Lug 2013

Posted by Amina Narimi in Poesia

≈ 3 commenti

Tag

anima, bellezza, camini della fate, fiore, toccare


Lascio andare piano sulle mani

colline calanchi e segretezza

un codice matematico

ricavato dalla bibbia

tra ragnatele d’archi :

cambaciano le linee

di piccole incisioni

sfruttando le fessure naturali

mischiando malta ferro legno

e un lavoro sporco con la pietra

al cuore torna in suono

un palpito –piano piano eroso

come un filo di canzone-

le dita lente a domandarsi

il futuro dei miracoli

a brillare vive sui nostri d’oggi

polsi bianchi come ancelle

mentre l’acqua porta via

tanti strati di pittura

ai volti l’essenziale

c’è un sottile stelo tra i vigneti

e noi

a meditare sui camini delle fate

l’ignoto inesauribile

lo spazio vuoto

che quei pieni dovranno limitare

Così ci  amiamo.  l’anima

senza un fiore. ci tocchiamo

la grande bellezza

«camino di fata» Siamo in Cappadocia, un’ area della Turchia centrale che tanto tempo fa tre grandi artisti crearono lavorando a turno. Per primi cominciarono i vulcani che in dieci milioni di anni di furori depositarono due o trecento metri di cenere e lapilli per fabbricare tufo di tutti i colori; poi vennero correndo il vento e l’ acqua per sfidarsi a chi scolpiva nell’ altopiano le forme più bizzarre e fu una gara memorabile; quindi arrivarono gli uomini del Medioevo che davanti a tanta bellezza decisero di viverci letteralmente dentro. Per questo si infilarono nella pietra e dall’ interno scavarono case, chiese e villaggi interi, inventandosi un’ architettura dal didentro, un mondo alla rovescia. Una vera meraviglia. PAESE DEI CAVALLI – Secondo incerte ipotesi il nome Cappadocia deriverebbe dal persiano katpatukya, «il paese dei bei cavalli» che tanto piacevano ad Assurbanipal e a Ciro il Grande quando li ricevevano in regalo dai signori dell’ Asia Minore. Così è scritto nelle guide turistiche e in effetti la steppa dell’ altopiano anatolico (m 1.200) sembra fatta apposta per far correre i cavalli, anche se oggi da queste parti di cavalli se ne vedono pochi e piuttosto bruttini. Geograficamente parlando, comunque, la Cappadocia non esiste. Nemmeno sugli atlanti. E’ solo un nome che una volta si usava per gran parte della Turchia e col tempo ha finito per indicare – ma non per scritto – solo un pezzetto di quei 40 mila chilometri quadrati di tufo dove cittadine come Uchisar, Urgup, Goreme o Zelve paiono capitali di un regno fatato. VULCANI D’ ARTE – Sono una dozzina e sono stati a lungo i veri signori della regione. Ora sono tutti morti e se ne stanno all’ orizzonte incappucciati di neve, confusi tra cumuli di nuvole bianche. I più grandi sono l’ Erciyes Dag che arriva a 3.916 metri, e l’ Hasan Dag (m 3.253), che ottomila anni fa si fece vedere ancora attivo dagli uomini di Catal Huyuk, una delle più antiche città del mondo, che lo raffigurarono in eruzione sulle pareti di una delle loro case-santuario realizzando così il primo dipinto paesaggistico della storia dell’ arte. Ognuno di questi vulcani aveva un suo preciso carattere e sparava nel cielo ceneri più o meno calde, più o meno ricche di un minerale o di un altro. Per questo ogni eruzione ha lasciato il suo segno, sia nelle forme che nei colori e mentre nella Valle Rosa si vedono scenografie che paiono tagliate in una torta millefoglie, nella Valle Bianca torreggiano impudiche colonne che fanno sorridere le signore. CAMINI DELLE FATE – Per spiegare come ha fatto la natura a costruire questo mondo fantasy, la nostra guida Mustafà parla di «erosione selettiva» e invita a guardare il paesaggio che dà lezioni di geologia. Ma spiega volentieri perché le piramidi con un masso sulla punta si chiamano «camini delle fate» (chi altri può avere camini così fatti?), e dice che sua nonna gli raccontava che quel gruppetto di «camini» lungo la strada per Goreme è in realtà una famigliola pietrificata da chissà quale sortilegio: padre, madre e bambino davanti, nonna e nonno un po’ più indietro. Questo raccontava la nonna di Mustafà e lui, che ormai ha quarant’ anni, ripete la storia ai suoi bambini e ai turisti che accompagna per le valli. Che farebbero bene a crederci senz’ altro perché i «camini delle fate» ognuno li può guardare con gli occhi che vuole: nel Settecento il viaggiatore francese Paul Lucas credette di vedere busti umani, leoni, uccelli e altri animali, nelle forme dei massi che fanno da cappello ai pinnacoli; creature simili vide anche l’ inglese Ainsworth, a metà dell’ Ottocento. Poi di questi esseri non se ne seppe più nulla e si pensò solo alle fate. COSTRUIRE «IN NEGATIVO» – Pare che questa regione sia stata frequentata dagli uomini fin dal Paleolitico, ma gli autori delle meraviglie sono quelli che dal IV secolo dopo Cristo andarono a vivere nelle valli dove l’ acqua scorreva tra pareti di tufo e accumulava un po’ di terra da coltivare. Molti erano monaci e con famiglie e confratelli si rifugiarono tra le rocce per sfuggire a persecuzioni e assalti ma, anziché costruire pietra su pietra, decisero di scavare case e chiese dentro le pareti dei canyon, nelle piramidi puntute, nei «camini delle fate» e persino sottoterra. Così sì inventarono un’ architettura «in negativo» che è difficile anche da pensare perché la mente si confonde a immaginare come si possano fare stanze, navate, archi e capitelli, lavorando «per sottrazione». A noi abituati a costruire «per addizione» sembra impossibile riuscire a togliere esattamente la roccia che c’ è attorno a un’ idea per far apparire proprio lì, nel punto giusto, la volta di un soffitto, l’ angolo di un pilastro e – soprattutto – lo spazio vuoto che quei «pieni» dovranno limitare. GUERRA ALLE IMMAGINI – Per capire cosa si può creare così facendo bisogna entrare nelle chiese rupestri. Tra il IV e il XIV secolo ne vennero realizzate almeno 1200 e in circa trecento i monaci-pittori raccontarono coi pennelli tutta la loro fede. Facevano figure così belle che avrebbero potuto convertire chiunque. E proprio per questo l’ imperatore Leone III di Bisanzio, che voleva ridimensionare il potere del clero monastico, pensò di attaccare quelle immagini scatenando una campagna iconoclasta (VIII-IX secolo) che costrinse i monaci a rintanarsi sempre più in fondo alle loro caverne, mentre le furie scatenate da Bisanzio sfregiavano madonne e accecavano santi. Ma questa follia non fu l’ unico problema di quei monaci. Da secoli subivano le incursioni degli eserciti arabi che arrivavano dall’ altopiano per far razzia di tutto quello che c’ era da mangiare; una situazione che costrinse alcuni di loro a emigrare lontano e qualcuno forse arrivò fino a Matera e Gravina in Puglia. Così andarono le cose fino a poco dopo il Mille quando, finalmente, dagli altipiani dell’ Iran arrivarono i Turchi selgiuchidi che riportarono un po’ d’ ordine in tutta la regione. Fu allora che i monaci ripresero a dipingere e lo fecero con tale slancio che il 70 per cento delle immagini che conosciamo vennero realizzate proprio nei decenni che seguirono l’ arrivo dei turchi; gente così disponibile e tollerante che turbanti e aureole si mescolarono senza problemi anche nelle pitture delle chiese. COLONNE COME ZUCCHERO – Le cose più belle da vedere sono a Goreme dove le chiese scavate nei picchi di tufo hanno nomi poveri (Chiesa della Mela, della Fibbia, del Serpente, dei Sandali, e così via), ma forme e colori da principi. Le linee degli archi rimbalzano eleganti sui capitelli, si inseguono sulle volte, si inchinano tutte insieme attorno al volto di Cristo che s’ affaccia luminoso da cieli di lapislazzuli; angeli con ali d’ arcobaleno volano tra annunciazioni e natività, mentre apostoli a tavola per l’ ultima cena si guardano attorno con occhi sgomenti. Non c’ è uno spazio libero, tutto è dipinto. Persino colonne e capitelli hanno venature a zig-zag, rosse, gialle e azzurre, per suggerire agate preziose e rari alabastri. Nella Chiesa Oscura (XI secolo) sono così allegre che sembrano bastoncini di zucchero ritorto e fanno venire in mente certi quadri di De Chirico e Savinio. Chi le dipinse doveva sognare un paradiso tra il metafisico e il post-moderno. Tra queste bellezze dipinte si scoprono cose che non si vedono affatto nelle chiese d’ Occidente. Come la Madonna che beve una «coppa della verità» per dimostrare d’ essere Immacolata o quell’ enigmatica figuretta dall’ aria pagana (un dio dell’ acqua? un diavoletto?) che compare vicino a Cristo in certe scene di battesimo. ALIENA E MISTERIOSA – Zelve, la cittadina rupestre abitata fino agli anni Cinquanta, ci dà un’ idea di com’ erano i villaggi rupestri prima che venissero abbandonati. Le abitazioni erano scavate nelle pareti dei canyon, con gli ingressi a livello del terreno e scale interne per passare da un piano all’ altro; finestre minute davano aria e luce alle stanze che affacciavano sulla valle. Più in alto c’ erano le colombaie: centinaia, migliaia di minuscoli ingressi per i piccioni, che fornivano cibo tutto l’ anno e guano in quantità per i campi del fondovalle, dove grandi canali sotterranei convogliavano l’ acqua per evitare che scendendo a precipizio dall’ altopiano portasse via i campi coltivati. Ora Zelve mostra i segni del tempo. L’ acqua piovana penetra nelle fessure della pietra e ogni inverno, trasformandosi in ghiaccio, schianta la roccia facendo crollare grandi fette d’ abitato; per questo su molte pareti sono venuti allo scoperto brandelli di stanze, cunicoli e scale, che s’ aprono sul vuoto come occhiaie vuote. Così Zelve somiglia a una città di un pianeta da «Guerre stellari». «CITTA’ » SOTTERRANEE – Finora ne sono state individuate 160 e molti sono convinti che sotto ogni paesino della Cappadocia ce ne sia una. Se così fosse potrebbero essere oltre quattrocento. Ma attorno a queste «città» circolano troppe informazioni fantasiose e per non perdersi chissà dove è bene raccontarle ascoltando quello che dice Roberto Bixio, presidente del Centro Studi Sotterranei di Genova, che da anni esplora e studia queste cavità. Nessuno sa chi furono i primi a costruirle e neppure a che epoca risalgono le più antiche, anche se probabilmente presero forma un po’ alla volta, verso il IV-V secolo della nostra era, quando monaci e contadini cominciarono ad allargare cantine vecchie di chissà quanto. Così, generazione dopo generazione, i sotterranei diventarono sempre più grandi e articolati, anche perché era proprio laggiù che tutti si rifugiavano quando all’ orizzonte apparivano bande di razziatori. OPERA DELLA PAURA – La più imponente di queste cantine-rifugio è quella di Derinkuyu. Chi non soffre di claustrofobia può scendere a livelli sempre più bassi, fino a 50 metri di profondità, infilandosi in cunicoli che costringono a chinarsi fin quasi a procedere carponi. Che questo mondo sotterraneo sia figlio dalla paura lo si avverte bene quando si percorrono quei budelli stretti sbarrati da porte-macina che si chiudono rotolando fino a incastrarsi nella parete opposta. Trappole adatte a un film di Indiana Jones, con un buco al centro che permetteva ai rifugiati di infilzare gli assalitori che si presentavano davanti alla porta girevole. Non era facile uscire vivi da questo labirinto.

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POCHI AMICI * MOLTO AMORE :: Il blog di Carmine Mangone

Pensieri Parole e Poesie

Sono una donna libera. Nel mio blog farete un viaggio lungo e profondo nei pensieri della mente del cuore e dell anima.

Scritture

Marco Ercolani

Sempre giovane è la conoscenza

Leggere a tutte le età

Pensieri, opere, sogni

ALPRIMOSGUARDO

Rivivere, raccontare ed immaginare... la miglior descrizione della fotografia.

DI SESTA E DI SETTIMA GRANDEZZA - Avvistamenti di poesia

a cura di Alfredo Rienzi

intermittenze- scritture di Anna Leone -altre voci-

"Mi manca il riposo, la dolce spensieratezza che fa della vita uno specchio dove tutti gli oggetti si dipingono un istante e sul quale tutto scivola." Alfred De Musset

Abner Rossi Blog Ufficiale

Teatro, Poesia, Spettacoli

V.&V.travel

Live life with no excuses, travel with no regret.

Silvia Montefoschi

- il pensiero uno oltre la psicoanalisi -

ALESSANDRO DEHO'

blog personale di Alessandro Deho'

Domenick Diary📚

Blogger✍️

Assonanze

Questo blog è registrato su http://www.blogitalia.org

THE MESS OF THE WRITER

If you're not italian, you have the possibility to translate all the articles in your own language, clicking on the option at the end of the home page of the blog.

Colpevole Innocenza

Tribute site to Ren Hang - Contributions are welcome

Nonapritequelforno

Se hai un problema, aggiungi cioccolato.

Ushma Patel

When the green woods laugh with the voice of joy, And the dimpling stream runs laughing by; When the air does laugh with our merry wit, And the green hill laughs with the noise of it.

Sons Of New Sins

Parole libere. In armonia con il suono del silenzio.

Stefano Cicchini

Italian Influencer & Instagram Specialist

claudia zironi

Un cielo vispo di stelle

Laura Berardi

La vita è un uragano di emozioni

Il Canto delle Muse

La cosa importante è di non smettere mai di interrogarsi. La curiosità esiste per ragioni proprie. Non si può fare a meno di provare riverenza quando si osservano i misteri dell'eternità, della vita, la meravigliosa struttura della realtà. Basta cercare ogni giorno di capire un po' il mistero. Non perdere mai una sacra curiosità. ( Albert Einstein )

Il mestiere di leggere. Blog di Pina Bertoli

Letture, riflessioni sull'arte, sulla musica.

vengodalmare

« Io sono un trasmettitore, irradio. Le mie opere sono le mie antenne » (Joseph Beuys)

Inverso - Giornale di poesia

Pensieri Scritti ElyGioia

InTheNameOfSeitan

V for Vegan

ilperdilibri

Non di questo mondo

Nel mio taschino c'è tutto quello che va conservato per non andar perduto.

LIMINA MUNDI

Per l'alto mare aperto

Di poche foglie

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Ettore Massarese

un navigatore cortese

y o k l u x

la poesia non è un museo delle cere e non è un pranzo di gala.

Qui e Ora Associazione Culturale Pedagogica

ℓα ροєѕια ροяτα ℓοиταиο - ροєτяγ gοєѕ Ꮠαя αωαγ 🇮🇹

ตαɾcօ ѵαssҽllí's ճlօց բɾօต 2⃣0⃣0⃣6⃣ – թօաҽɾҽժ ճվ sαճíղα  ♥ Diciassettesimo anno ♥    

Debrecen chiama Italia

i nostri colori finalmente uniti

GRETA CIPRIANI

Pianist, Poet, Composer

Seidicente

altrimenti tutto è arte

Il Calamaio Elettrico

Sito ufficiale di Mauro De Candia

La Sicilia, terra e donna

Il blog di Donatella Pezzino

Louis Book World

"Interrogo i libri e mi rispondono. E parlano e cantano per me" F. Petrarca

I pensieri di Hamaika

Scrivere la vita.

LATITUDINI E ALTRE PAROLE

marcellocomitini

il disinganno prima dell'illusione

Semplice Poesia

Poesia per tutti

Magazine Alessandria today - Pier Carlo Lava

Lei era grande, buona, generosa, fedele, si chiamava Raissa, era la mia cara grande amica, di Pier Carlo Lava

almerighi

amArgine come sempre

SCIARANERA

di Sebastiano A. Patanè-Ferro

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