È una strada con pochi pianori
che disegna il mio capomese-
per ognuno un giardino e la Geenna
per ognuno una piccola lacrima,
come fosse una lettera chiusa,
dove adagio riprendere il fiato
che sospinge da tutte le parti
le ginocchia e i pronomi da soli-
con pelli di montone tinte in rosso
e lana azzurra, per essere al tuo fianco,
per scoprire la spirale della retta,
e la bontà nella pancia della lupa,
posta a guardia luminosa del mistero.
Dove ancora non osiamo far l’amore
ho portato l’oliobuono per Lalùz,
le tue pietre, che devo incastonare,
per il dorsale e per il pettorale.
Formerò i covoni, domattina,
districherò i capelli delle piante;
per offrirti il mio Sabbath ho riposato,
non ho tagliato non ho scritto o cancellato,
ho condotto unicamente alle Stazioni
delle immagini In forma di parole –
quel tuo libro dalle pagine brillanti
come il melo tra le albere del bosco-
dove scorre percepibile la voce,
fra le tre che non possono sparire,
è casa nostra l’alburno separato
al principio dell’eterno matrimonio,
tabernacolo per l’ultimo sorriso.
almerighi ha detto:
una serie di riferimenti nel tuo bellissimo brano, mi riportano all’ebraismo, popolo, quello ebraico che ammiro moltissimo: non fossi nato latino avrei volute essere ebreo
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Amina Narimi ha detto:
Grazie Flavio, l’amore che nutro per quella terra, per il sapore della sua lingua, è davvero un essere vivente nel mio sangue, un minuscolo pastore un compagno una sorella che mi tiene per mano, una foresta appena nata che si alza ogni volta che imparo una parola nuova nascosta fra antichissime radici
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