A mio figlio
Non come porti pane a casa
benedetto o accidentato
ma come vivo sai il respiro
capace di distinguere un segnale
di sopravvivenza da un rumore
come rischio dov’è il cuore, sai
al centro del dolore
che non fa paura del futuro
piangere
ballando al buio con la pace
la montagna
…la mia Jebel ti mostro
la portata d’acqua i suoi colori
lungo il perimetro dei fianchi
circondata da due fiumi una Segesta
abbandonata a 36 colonne- nello scrigno
morbida roccia incompiuta vita
niente del suo splendore più colpisce
il semicerchio vuoto nel Teatro
il donativo del paesaggio toglie il fiato
quasi a morte nel tuo sguardo. dov’è il mare
alimenta il mio pensiero mentre scendo
tengo il filo del fondale. fino al fondo
ondeggia sulla prateria la posidonia
coi suoi capelli d’oro silenziosa
l’ossigeno di un peso troppo grande
dentro gli occhi delle anfore perdute
con le mani sulle alghe ti racconto
come levarti dalla solitudine
-che avresti giocato in paradiso. “Sì
anche lì viene la neve ” ti rispondevo
Risalgo le domande sulle dita
le acque strette erano il tuo viso
impresso c’è quel nome- figlio mio-
già illeggibile
al mare che ti chiude
infinitamente tacito