Mi pesano le braccia in casa
gli occhi si gonfiano per eccesso di dolore
non di lacrime.
C’è una donna leggera che mi attende
Silvana,luminosa
copre la mia ombra ancora dilaniata
acerba come i fichi, sulle alpi i bucaneve
Sono notti e notti che cerco di curare l’ll cuore
in sè stesso più grande del dolore
più forte di tutto quel che c’è,che è
senza nascondergli l’accaduto
l’urna di luce si fa la sua grandezza insieme
la sorgente diretta della forza
Entro qui..così,con gli occhi chiari
gli anelli stretti di ricordi..protendono nel suo vero nome
dicono…-Mammet !sono tornata….
fa quasi freddo..già
non lascerò più la finestra aperta da domani,
solo poco poco,a giro d’aria.-
Non è incrinato il cuore,la voce sola stenta…
mormora che verrai,verrai a conoscerla
le braccia allora si fanno d’abbandono..
fa cuore nel mio viso la tua ombra
C’è una vita solo nostra- tua e mia-
estranea ai giorni, che scava gli occhi
più grandi dei silenzi
delle notti seminali abitate dalla fame,
una vita immobile ferma sulla radice delle cose
le Parole
Un’esistenza fatta di visioni splende “estrema”
-Più che vissuta contropelle è intatta,sai?-
nelle pupille chiuse evoca i nostri cristallini chiari,
non c’è polvere nel coraggio
non paura nella fame,
sta imparando che l’ll buio è un eccesso di luce l’ll nero
e niente è la parte di una cosa altra
che è l’unione del contrario l’ll suo splendore
vegliando sempre,come vestali l’ll fuoco
Sappiamo nulla di promesse,di crudeltà,paralisi o consumazioni
ma possediamo la parola visiva del luogo
del dove giorno a giorno ricomponiamo mut(u)a la vita
Non credo sia esperienza la nostra,non la mia
nemmeno la ragione ci conduca
che sia rivelazione è l’ll mio sentire
voci che si chiamano in palude e non si vedono
rivelazione dell’incomunicabile
Quel gioco indicibile del silenzio con la luce
risuona senza requie apre una via al sempre
muove montagne di Ararat nei corpi assenti
La roccia non sa inventare…credimi
è così grande da dividere in chiarezza l’ll buio
nell’ora esatta di quarta vigilia ti chiamo
ognivolta sogno,stringo l’elefante
nell’orecchio debole gli accosto l’ll grande e ascolto,
indovinando l’ll gemito di quel bambino
se sarà felice …
afferro allora le ferite,le più profonde
dove la neve non si vede
le colmo di miele nel bianco delle vene
con le mussole che mi hanno messo a nudo
mi vesto,mi coloro
torno ogni volta a splendere
in Stabat Mater
e..sogno di quella felicità
che mi rimane